Tunisia

Un’esposizione per non dimenticare i pozzi

In Tunisia, i pozzi nel deserto sono essenziali per abbeverare le carovane nomadi e il bestiame. Il loro progressivo abbandono ha spinto un collettivo di architetti a formare un'associazione per salvaguardare questi sistemi di irrigazione tradizionali e parte del patrimonio culturale. Attraverso il racconto fotografico dei pozzi del sud della Tunisia, emerge una mappa delle sfide ecologiche legate all'acqua.

Un pozzo imbiancato a calce, dal design sobrio con solo un secchio e una carrucola, immerso tra dune sabbiose. Nella mostra fotografica "Land of wells", presentata nello spazio 32bis nel centro di Tunisi, i diversi scatti realizzati dal fotografo M'hammed Kilito permettono di comprendere l'importanza di questi mezzi di irrigazione nel corso di quasi un secolo. E costituiscono una testimonianza dell'habitat nomade nella regione.

“Il nostro progetto sui pozzi è iniziato quando ci siamo interessati alle tracce nomadi che esistevano ancora nel deserto. Dalla colonizzazione nel 1881, queste popolazioni si sono progressivamente sedentarizzate, a volte contro la loro volontà. Oggi non rimane che un'unica tribù nomade tra Tunisia e Algeria, i Rebya” spiega Vanessa Lacaille, una delle architette.

Viaggiando attraverso il Grande Erg orientale, il Chott djerid e i Jebel Dahar, il rilievo montuoso al confine con l'Algeria nel sud della Tunisia, gli architetti hanno scoperto che la maggior parte di queste tracce si basa sui pozzi, antichi o moderni, distribuiti a centinaia nell'immensità del deserto. “Alcuni sono appena distinguibili attraverso un piccolo muro di mattoni con la barra orizzontale che sostiene la carrucola con la corda e il secchio. Altri sono delle sorta di cisterne, i “Fesquiels”. Si vede anche che alcuni erano collegati ad abbeveratoi con tettoie sotto cui si riparano gli animali, quindi sono davvero elementi essenziali della vita nel deserto”, spiega un altro architetto, Hamad Kriouane.

Testimoni dei cambiamenti nel deserto

Altri ancora sono stati completamente sepolti dalla sabbia o lasciati all'abbandono. Quelli più antichi sono scavati direttamente vicino a un uadi. Profondi alcuni metri, rimangono asciutti per buona parte dell'anno e vengono riforniti solo dalla pioggia. I più “permanenti” sono quelli scavati per raggiungere la falda acquifera, a oltre 250 metri di profondità. Alcuni pozzi sono protetti da una costruzione a forma di cupola che puòessere utilizzata come spazio di stoccaggio e la cui struttura costituisce una barriera contro il rischio di insabbiamento.

Alimentati da un sofisticato sistema di trivellazione, i più moderni testimoniano l'attività umana che resiste ancora in queste zone ostili. Per i lavori, in particolare le incessanti trivellazioni nella falda acquifera per costruire nuove città, o ancora i palmeti destinati alla coltivazione e all'esportazione dei datteri, una delle principali risorse economiche del paese.

Alcuni pozzi hanno caratteristiche particolari. Come quello di El Faouar, uno dei pochi ad attingere alla falda intercalare, a migliaia di metri sotto terra. L'acqua che vi si estrae è molto calda, sulfurea e salata, quindi deve passare attraverso un refrigeratore.

 “Nei pressi di questa costruzione, un camper è parcheggiato vicino all'unica palma superstite di un'oasi scomparsa. Alcuni campeggiatori austriaci si sono stabiliti qui, alla ricerca delle rose del deserto” si legge in “Land of wells”, il libro che dà il titolo alla mostra. Il libro ripercorre il percorso intrapreso da questi architetti per mappare e tentare di restaurare e salvaguardare alcuni pozzi.

“Ecco perché abbiamo deciso di organizzare la mostra. L'idea era catalogare l'esistenza di questi pozzi, ma anche testimoniare l'impatto del riscaldamento globale e dell'attività urbana nel deserto” spiega Mounir Ayoub.

La memoria del deserto

Oltre ai problemi di desertificazione, le città artificiali in fase di costruzione e basate su monocolture intensive minacciano anche le scarse risorse idriche della regione con i sistemi di estrazione alimentati da pannelli fotovoltaici. “Questo sistema spesso preleva troppa acqua in una volta sola. Quindi, una volta irrigate le palme, il resto dell'acqua viene scaricato e ristagna o evapora spiega Mounir Ayoub.

Queste sono situazioni molto problematiche, perché da un lato abbiamo oasi che deperiscono a causa dei loro pozzi prosciugati, ma dall'altro lato, troviamo queste nuove coltivazioni e palmeti artificiali che consumano la risorsa” aggiunge. Da qui l'interesse a salvaguardare e riparare i pozzi esistenti piuttosto che costruirne di nuovi, secondo lui.

“Restiamo a osservare tutti questi cambiamenti. Il nostro ruolo non è giudicare, ma forse di incoraggiare una maggiore regolamentazione. Mostrando proprio l'importanza di qualcosa di vivo, minimalista e già esistente conclude l'architetto. Dopo la fine dei lavori al pozzo di Bir Ettin, la vita è ripresa da sola: uccelli, cammelli e abitanti sono tornati naturalmente verso questo punto d'acqua.

Un paese, pozzi da restaurare e riparare

Fadhil Midéni, operatore turistico nel sud, racconta. “I nostri nonni erano nomadi del deserto. I nostri genitori si guadagnavano da vivere raccogliendo datteri o lavorando nel petrolio e nel fosfato. Noi lavoriamo nel turismo, ma sappiamo tutti orientarci nel deserto. Quando ce ne andremo, questo sapere rischia di sparire con noi.”

Il nome dato a questa zona abitata nel deserto è “Bled el Abar”, il paese dei pozzi. È proprio la tipologia di questi pozzi che traccia le strade nel deserto e i punti di riferimento. Un centinaio sono stati censiti dal collettivo di architetti, perché, sebbene siano tutti ufficialmente gestiti dal Ministero dell'Agricoltura tunisino, è difficile avere dati precisi sul loro numero e su quelli ancora funzionanti. La loro manutenzione e conservazione lascia spesso a desiderare, come dimostrano le fotografie.

Da qui il progetto degli architetti per rimettere in funzione uno di questi punti d'acqua. “Abbiamo discusso a lungo con gli ultimi agricoltori e pastori nomadi della regione per capire quale pozzo riparare. E per garantire che potessero anche provvedere alla sua manutenzione a costi contenuti”, spiega Mounir Ayoub, uno degli architetti. In pochi giorni, con l'aiuto di alcuni operai, hanno ripulito il pozzo selezionato dalla sabbia e ricostruito il muro di mattoni a Bir Ettin, vicino a diverse oasi, a un mausoleo e ad alcuni villaggi.

“Questo pozzo era insabbiato da tempo, quindi i pastori e le famiglie dei villaggi vicini dovevano fare il doppio della strada per trovare un punto di approvvigionamento idrico” spiega Mounir. Gli operai hanno anche costruito vicino al pozzo una barriera di foglie di palma, una sorta di bastione naturale per contrastare l'effetto delle tempeste di sabbia o l'avanzata del deserto.

Il problema dell'insabbiamento dei pozzi colpisce anche gli ecosistemi. Alcuni cammelli selvatici si ritrovano a vagare e ad avvicinarsi ai villaggi, non riuscendo a trovare un punto d'acqua. Dopo cinque giorni di lavoro, questo pozzo degli anni '90 è tornato operativo, con acqua trovata a circa 18 metri di profondità. “È anche per questo che abbiamo allestito la mostra. Speriamo così di attirare finanziamenti per poter riparare altre opere” conclude Mounir.

Talvolta i pozzi sono protetti da una costruzione a forma di cupola © M'hammed Kilito

Foto di copertina: Molti pozzi sono lasciati all'abbandono © M'hammed Kilito